domenica 20 marzo 2011

Il primo amore_Giacomo Leopardi

IL PRIMO AMORE


Tornami a mente il dì che la battaglia


D'amor sentii la prima volta, e dissi:


Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!




Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi


Io mirava colei ch'a questo core


Primiera il varco ed innocente aprissi.




Ahi come mal mi governasti, amore!


Perché seco dovea sì dolce affetto


Recar tanto desio, tanto dolore?




E non sereno, e non intero e schietto,


Anzi pien di travaglio e di lamento


Al cor mi discendea tanto diletto?




Dimmi, tenero core, or che spavento,


Che angoscia era la tua fra quel pensiero


Presso al qual t'era noia ogni contento?




Quel pensier che nel dì, che lusinghiero


Ti si offeriva nella notte, quando


Tutto queto parea nell'emisfero:




Tu inquieto, e felice e miserando,


M'affaticavi in su le piume il fianco,


Ad ogni or fortemente palpitando.




E dove io tristo ed affannato e stanco


Gli occhi al sonno chiudea, come per febre


Rotto e deliro il sonno venia manco.




Oh come viva in mezzo alle tenebre


Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi


La contemplavan sotto alle palpebre!




Oh come soavissimi diffusi


Moti per l'ossa mi serpeano, oh come


Mille nell'alma instabili, confusi




Pensieri si volgean! qual tra le chiome


D'antica selva zefiro scorrendo,


Un lungo, incerto mormorar ne prome.




E mentre io taccio, e mentre io non contendo,


Che dicevi, o mio cor, che si partia


Quella per che penando ivi e battendo?




Il cuocer non più tosto io mi sentia


Della vampa d'amor, che il venticello


Che l'aleggiava, volossene via.




Senza sonno io giacea sul dì novello,


E i destrier che dovean farmi deserto,


battean la zampa sotto al patrio ostello.




Ed io timido e cheto ed inesperto,


Ver lo balcone al buio protendea 


L'orecchio avido e l'cchio indarno aperto,




La voce ad ascoltar, se ne dovea


Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;


La voce, ch'altro cielo, ahi, mi togliea.




Quante volte plebea voce percosse


Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,


E il core forse a palpitar mi mosse!




E poi che finalmente mi discese


La cara voce al core, e de' cavi


E delle rote il romorio s'intese;




Orbo rimaso allor, mi rannicchiai


Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,


Strinsi il cor con la mano, e sospirai.




Poscia traendo i tremuli ginocchi


Stupidamente per la muta stanza,


Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?




Amarissima allor la ricordanza


Locommisi nel petto, e mi serrava


Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.




E lunga doglia il sen mi ricercava,


Com'è quando a distesa Olimpo piove


Malinconicamente  e i campi lava.




Ned io ti conoscea, garzon di nove


E nove Soli, in questo a pianger nato


Quando facevi, amor, le prime prove.




Quando in ispregio ogni piacer, né grato


M'era degli astri il riso, o dell'aurora


Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.




Anche di gloria amor taceami allora


Nel petto, cui scaldar tanto solea,


Che di beltade amor vi fea dimora.




Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,


E quelli m'apparian vani per cui


Vano ogni altro desir creduto avea.




Deh come mai da me sì vario fui,,


E tanto amor mi tolse un altro amore?


Deh quanto, in verità, vani siam nui!




Solo il mio cor piaceami, e col mio core


In un perenne ragionar sepolto,


Alla guardia seder del mio dolore.




E l'occhio a terra chino o in se raccolto,


Di riscontrarsi fuggitivo e vago


Né il leggiadro soffria né in turpe volto:




Che la illibata, la candida imago


Turbare egli temea pinta nel seno,


Come all'aure si turba onda di lago.




E quel di non aver goduto appieno


Pentimento, che l'anima ci grava,


E il piacer che passò cangia in veleno,




Per li fuggiti dì mi stimolava


Tuttora il sen: che la vergogna il duro


Suo morso in questo cor già non oprava.




Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro


Che voglia non m'entrò bassa nel petto,


Ch'arsi di foco intaminato e puro.




Vive quel foco ancor, vive l'affetto,


Spira nel pensier mio la bella imago,


Da cui, se non celeste, alro diletto




Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.




Giacomo Leopardi

Nessun commento:

Posta un commento