sabato 22 gennaio 2011

Simposio Platone Amore non è un dio


«Ma sì, via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che sull'Amore, mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta sull'argomento e su un'infinità di altre questioni. Figuratevi che una volta, con i sacrifici che fece fare agli ateniesi, prima della peste, riuscì a ritardare l'epidemia di dieci anni. Fu lei a erudirmi nelle questioni d'amore e quindi, partendo dalle conclusioni che Agatone ed io abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu dicevi, Agatone, bisogna definire prima chi sia Amore, quale la sua natura e poi le sue opere. Ora io penso che la cosa più facile per me, sia quella di seguire lo stesso metodo che usò quella straniera quando discusse con me. Anch'io, infatti, le dicevo un po' le stesse cose che ora mi ha ripetuto Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che è amore di cose belle ed ella cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti, precisamente, che io ho usati ora con costui, cioè che Amore non è né bello (per usare le mie parole) né buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima? Allora Amore è brutto e malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?» fece lei. «Credi forse che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» «Sicuro, io sì.» «E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che c'è sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza?» «E quale?» «Avere un'opinione giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione; non sai,» fece «che questo non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa dare una spiegazione?), ma non è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe se coglie nel vero?). Insomma, la retta opinione è qualcosa di simile, una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io. «E quindi non insistere a credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti i costi, brutto e ciò che non è buono, debba esser malvagio. E così anche a proposito di Amore, visto che anche tu sei d'accordo che non è buono né bello, non pensare che debba essere malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra questi due estremi.» «Eppure,» obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio potente.» «Tutti chi?» ribatté lei, «quelli che non sanno o anche quelli che sanno?» «Tutti quanti.» «Ma come fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece lei, ridendo, «se affermano che non è nemmeno un dio?» «E chi sono questi?» «Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io.» «Ma come fai a dir questo?» «Semplice. E tu, infatti, rispondimi: non affermi che gli dei son tutti beati e belli? avresti il coraggio di dire che qualcuno non è bello o non è beato?» «Santo cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non sono quelli che hanno bontà e bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che Amore desidera le cose buone e belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.» «E, allora, come può essere un dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no, assolutamente.» «Vedi, dunque,» concluse, «che anche tu affermi che Amore non è un dio.» 

XXIII
Amore è un dèmone. Amore è filosofo
«Ma, allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente affatto.» «Ma allora?» «Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale e l'immortale.» «E cioè, Diotima?» «Un demone possente, Socrate, che come tutti i demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e, agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo padre e sua madre,» chiesi, «chi sono?» «È, una cosa lunga,» fece, «ma te la racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e, mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è, nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto, per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo, vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista. Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente; naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?» «Ma è chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale, sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama. Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha un altro aspetto, quale io ti ho descritto.»

XXIV
Amore è desiderio di possedere il Bello (che è il Bene)

Ed io: «E sia, straniera, tu parli bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini?» «È questo che ora cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così è nato: Amore del bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che senso, Socrate e Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi ama le cose belle, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventino sue,» risposi. «Ma questa tua risposta,» mi precisò, «esige che si ponga un'altra domanda, di questo genere, per esempio: ‹Che cosa gliene viene a chi possiede le cose belle?›» Io risposi che, a una domanda simile, non sapevo sul momento che dire. «E immaginiamo, allora, incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventi suo,» risposi. «E che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A questo,» dissi, «mi è più facile rispondere: sarà felice.» «E, infatti, concluse, è proprio per il possesso del bene che le persone felici sono tali e non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta definitiva.» «È vero quello che dici,» ammisi. «E allora, questo desiderio e questo amore, credi siano un po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano sempre possedere il bene o pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano comuni a tutti,» feci. «E, allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne meraviglio,» ammisi. «E non devi stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto un aspetto e a questo solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il resto usiamo altri appellativi.» «Cioè,» chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è creazione ed ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui qualcosa passa dal non essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa è poesia e tutti i creatori sono poeti.» «È vero.» «Ma intanto,» continuò lei, «sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di tutte le attività creative, solo alcune e precisamente quelle che si occupano della musica e della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa è poesia e poeti, solo quelli che si dedicano a questo particolare aspetto della poesia.» «È vero,» ammisi. «E così è anche per l'amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è, per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli che cercano di realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che sono amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un particolare tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare, amanti.» «Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. «Eppure va in giro un certo discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro metà. La mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per l'intero, a meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si lascerebbero tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per loro, perché io credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci appartiene non sia il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti, gli uomini non amano altro che il bene. Non pare anche a te?» «Per Giove, a me sì,» ammisi. «E, dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il bene?» «Sì,» confermai. «Ebbene, non bisogna aggiungere che essi, questo bene, desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per un momento, ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci. «Per concludere, l'amore è possesso perenne del bene.» «È verissimo quello che dici,» feci.

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